giovedì 2 aprile 2009

19 aprile 2009


Alessandra URSO: una scultrice da ascoltare

Padova, 1968, artista versatile, spazia dall’ illustrazione alla pittura ma il suo campo preferito è la scultura: attiva dal 1998 con opere in bronzo - di carattere religioso e monumentale - in terracotta per gallerie artistiche, studi di architettura e privati. Le sue numerose opere si possono ammirare non solo in Italia ma anche all’estero, in particolare in Canada e in Australia. Alessandra Urso è, inoltre, molto impegnata in settori come la danza, la scenografia, l’organizzazione di eventi culturali, la cura e la guida alla fruizione di mostre.

Due citazioni ci possono introdurre a cogliere alcune connotazioni della sua arte:

-la prima è di Aaron Copland, musicista americano vissuto dal 1900 al 1990 e autore di varie e importanti opere, molte delle quali ispirate alla tradizione della musica popolare. Egli, nel libro Come ascoltare la musica, alla domanda che cosa ci proponga in genere il musicista risponde: “Egli non fa un racconto come quello di un romanziere, non prende a oggetto la natura come lo scultore, la sua opera non ha funzioni pratiche come quella dell’architetto. Che cosa dunque ci dà? Vi è una sola risposta possibile: il compositore ci dà se stesso” ;

-la seconda è del critico d’arte Giorgio Segato, che in un commento su alcune opere della nostra ne rilevò in particolare la costante “sperimentazione di forme, di tensioni modellate nello spazio, di spazi piegati e modulati all’espressività, di nuclei originari da sviluppare, continuare, allargare come acquisizioni, dilatazioni psichiche dell’anima individuale, e fisiche, dell’anima intellettiva nello spazio esterno da rendere sempre più e meglio vivibile e soprattutto, partecipato, testimone di presenza e di emozione individuale, quasi una scrittura e registrazione emotiva che si accresce e, al tempo stesso, sequenze di totem arcaici, archetipi di ascolto e di crescita, di ascesa, di espansione, di conoscenza nel mondo e del mondo, concentrando l’attenzione tattile e plastica sui volti e sui gesti, sull’espressività delle figure e sull’espansione centrifuga di movimenti armonici di danza.”

Ora, mentre è lecito ammettere che tutti gli artisti (e non solo i musicisti), quando sono tali, ci diano veramente se stessi, la loro più profonda e piena espressione intima e umana, con i colori le note i timbri di ognuno, per usare ancora le parole di Copland, il lungo e approfondito testo di Segato ci introduce più direttamente nel mondo della Urso. Una personalità in continua ricerca e mai contenta delle conquiste raggiunte, un’ artista che ama la sperimentazione mai fine a se stessa bensì in funzione di quell’ascolto attento alla realtà che si agita all’interno di un mondo che a sua volta riflette su quanto si muove perennemente fuori e attorno. Ascoltando a nostra volta le sue opere - in questo senso utilizziamo l’espressione di Copland - si avverte chiaramente questa sua volontà di ricerca.
Le sue figure – il presente catalogo ce ne offre un saggio – presentandoci la persona nei tratti apparentemente contraddittori dell’immobilità (evidente nell’inclinazione del collo e del capo, nel taglio degli occhi e nell’atteggiamento contemplativo dello sguardo) e del movimento (reso in particolare da alcuni busti che sembrano sezionati a piani sovrapposti e due arricchiti dalle ali), ci invitano immediatamente ad una riflessione o, meglio, ad una domanda, in ordine soprattutto a quella mutata anatomia umana a favore di forme che Segato definirebbe di “contorsione”. Sono figure che accentuano lo slancio verso l’alto nel momento che affinano collo e capo a formare un chiaro triangolo con le spalle; figure cui sguardo e inclinazione donano un atteggiamento di attenzione e contemplazione tali che lo spettatore (cioè colui che, letteralmente, le vede e le osserva) non può tirare dritto per la sua strada, poiché avverte che qualcosa dicono anche a lui.

In realtà, Urso – dopo la prima esperienza dedicata alla pittura (nella quale forse provava un senso maggiore di libertà ma non di appagamento, se non interpreto male) – è passata alla scultura (che costituisce un momento più impegnativo dal punto di vista formale ma forse più efficace per il suo carico di suggestione).
E’ il momento in cui ella si avvicina al messaggio del Buddismo, quindi contemplazione individuale e comunitaria. Qui capiamo in particolare lo sguardo inclinato e assorto nel momento comunitario del sańgha – ricerca della propria identità come scoperta del proprio passato, conquista progressiva della propria realizzazione mediante la pratica delle “quattro nobili verità” inerenti al dolore, progressiva conquista della propria serenità o salvezza, nirvāņa, nell’atteggiamento di benessere/armonia con il tutto e di compassione verso gli altri: ciò avviene nel tempo e dinamicamente – ecco i busti sezionati e i due con le ali, che rappresenterebbero lo stadio finale.

Si deve, forse, vedere in questa rappresentazione anche un’attenzione sociale alla realtà d’oggi, in particolare del mondo giovanile, cui ella si sente particolarmente vicina? E’ forse un’implicita affermazione del senso di vuoto di tanto mondo attuale, il cui dinamismo sembra conclamare una perdita di valori e di punti di riferimento in favore di una cultura dell’effimero e dell’apparire, alla quale sembrano sfuggite le coordinate? Urso sembra offrirci questa lettura nel momento in cui esprime il dinamismo umano mediante il vocabolo “mutante” (emblematica la mostra tenuta nell’aprile del 2004 a Rovigo col nome di Mutanti), vocabolo carico per lei di significati che vanno dal velocizzarsi della storia al crescere dei condizionamenti di ogni genere al disagio che proviamo nel vivere la tensione impulsi/condizionamenti come pure quella derivante dal rapporto uomo/macchina. Parlare, in tale contesto, di crisi di identità, soprattutto per le giovani generazioni, è il minimo che si possa fare: non solo molte realtà e ideali del passato, anche vicino, non ci sono più, ma non esistono più neppure i termini, le parole, il linguaggio, la sintassi di quella realtà/ideali: siamo in un momento cruciale della storia, costituito soprattutto dal fatto che questa, creata da noi, sembra sfuggirci di mano e noi, quali apprendisti stregoni, ne viviamo il dramma, fatto di incertezza. Siamo incerti della direzione e della meta di questo viaggio sempre più velocizzato, che può conoscere sobbalzi e impennate, arresti e addirittura tracolli inaspettati, solitamente chiamata con la parola quasi medianica e che vorremmo di significato neutro: crisi.

Proprio in questo tratto del cammino si fa preziosa l’opera di Urso, in vario modo impegnata a ricercare le radici dell’identità umana: il suo puntare su momenti e forme “preistoriche” e quasi “tribali” (ora si sta dedicando ai “meditatori”) nel momento in cui ci porta al passato compie un passo in avanti, verso la ricerca della identità spirituale; le sue terrecotte, con le loro plastiche configurazioni materiche in volti e atteggiamenti nuovi e insoliti mandano anche a noi un sommesso invito a entrare e sondare, senza paura, almeno un po’ del mistero della nostra condizione umana, nella convinzione che proprio nella ricerca interiore sta anche oggi la sfida, il banco di prova della nostra autenticità, come individui e come persone, che crescono nel fluire della storia, di cui siamo attori responsabili. Oggi più di ieri sembra rivolgerci l’invito: “Fermiamoci un po’ e pensiamo”.


L’opera che ora si inaugura raccoglie l’intera carica di tale messaggio. Nella freschezza a tutto tondo di quelle due giovani donne – cui l’elegante, leggero ed essenziale panneggio risalta le morbide forme – è la bellezza, ma anche la delicatezza, è la tensione che ricerca e ritrova l’equilibrio, non facile su quella sfera. Vi sembrano appena giunte e già sono “sicure”, solidali, rivolte ciascuna al proprio “campo” di provenienza e di “cura”, ma che d’ora in poi non sarà più il solo, perché c’è la volontà della collaborazione in quell’intreccio di mani e in quel ruotare perenne: è l’armonia che scaturisce dall’incontro sopra la sfera, simbolo di perfezione, sospesa tra cielo e terra.
Il gioco va ben oltre la semplice rappresentazione, pure evocatrice di significato, della fusione di due Comuni celebranti l’unità. La piazza o, meglio, l’incrocio delle strade ora è altro, col monumento che non solo l’abbellisce ma lo trasforma. Qui si parla un altro linguaggio, quello che porta ad altra sintassi, ad altri discorsi, che conservano sì il sapore dell’antico ma che si riempiono di nuovo. Un linguaggio, però, che, proprio per questo, domanda un’ attenzione tutta particolare, un ascolto che si raffina quotidianamente, perché ogni giorno più sembriamo perderne l’alfabeto, schizofrenicamente dibattuti tra un rinnovato individualismo e l’esigenza di comunione, nel rapido mutare di prospettive, mentre la globalizzazione ci avvolge da ogni dove.
D’altra parte, se proprio vogliamo chiamarla “monumento”, non dimentichiamo che l’opera così denominata vuole “semplicemente” ricordarci ed ammonirci, nella quotidianità dei nostri giorni, quel messaggio.


Giuseppe Zamarin

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